venerdì 17 febbraio 2012

La Bibliopolis di Luigi De Falco

La Bibliopolis di Luigi De Falco (di Nino Leone)

pubblicata da Dedicato a Pomigliano d'Arco il giorno giovedì 24 novembre 2011 alle ore 1.04 ·




La Bibliopolis di Luigi De Falco
di Nino Leone

(pubblicata  il giorno martedì 8 novembre 2011. La pagina "Dedicato a Pomigliano d'Arco" condivide questa nota proponendo alcine foto di Pomigliano di epoche diverse)

Ho conosciuto Luigi De Falco durante il carnevale del 77. Quella manifestazione, riuscita sostanzialmente grazie alla spontanea adesione di buona parte della gioventù pomiglianese, fu una portentosa avventura di “collettiva creatività”. Alla Rai di Roma, resta un ottimo video pieno di giovani dalle facce smunte e dalle esili figure da acciughe in salamoia sopra le quali - finchè le teche Rai resisteranno - svetterano per sempre gli allegri nastri multicolori del cappellone di Pulcinella, in balia del soffio d’anni che irrimediabilmente ci separa dalla nostra giovinezza.
Quella festa, organizzata all’ombra del: «dove c’è gusto non c’è perdenza», fu possibile anche grazie all’apporto che Gigino seppe dare, ai documenti che io ignoravo possedesse e che lui invece tirava fuori con grande gelosia, devo ammettere. Come del resto fanno tutti gli autentici bibliofili dai quali non si distacca mai un’insana bibliomania e dalla quale cosa sono resi autentici barricadieri del volume, del documento, del corpo cartaceo. Allora erano quelli del gruppo de’ Zezi che mi davano nuove di Luigi; erano loro che mi informavano delle fonti presso le quali avevano reperito un testo o lo  avevano confrontato, dato che la biblioteca comunale era un sogno ancora da sognare. A quel tempo, le uniche fonti disponibili, soprattutto in relazione all’autentica scoperta di quella generazione a riguardo della cultura popolare e al premuroso tentativo di rintracciarne l’apparato radicolare, erano i pochi documenti circolanti di chi seguiva, per sua fortuna, un metodo bibliografico, contrapposto invece al materiale residuale, non poco in verità, ancora a circolazione “orale”. In questo campo Luigi fu antesignano. Sotto traccia e in silenzio, coltivava la sua passione, si cibava di storie e vicende della città, antiche e moderne. Nasceva in lui un vero culto per il genius loci che lo avrebbe portato a impegnare tutte le sue risorse, senza badare a perdenze, ma solo per il piacere e il gusto di farlo.

In questo egli fu uno della sua generazione, in toto; uno tra quelli che al motto del gusto e della perdenza si era ben presto assuefatto e oggi, ne è memoria vivente la capacità di rintracciare documenti e volumi che fanno ormai parte di un patrimonio pubblico di stimabile valore. Gino era un cultore di storie e documenti locali perché in fondo era un “moralista”, una sorta di Montagne locale: una intelligenza tormentata dall’angoscia che prende chi in età di ragione non smette di pensare a sé e al mondo circostante in maniera critica, ma non avara di sentimento. Lo tormentava il pensiero di dover un giorno rivolgersi al suo paese natale e chiedergli/chiedersi: «Che ci faccio qui?». Per eludere quest’angoscia, si mise alla ricerca di notizie che sul nascere soddisfecero in primo luogo l’esigenza di nobilitare una località che di nobile aveva poco o niente e che anni di scellerate politiche avevano ridotto a indistinta periferia inurbana. Guardàti allo specchio della contemporaneità, questi nostri paesi sono ancora più brutti delle piccole borgate ottocentesche protese a sconfinare dalle aree dei palazzotti baronali.

Ho ragionato molte volte con Gino di questi aspetti e ogni volta coglievo lo sconforto di chi sa con molto anticipo che qualche buon metro di stoffa per cucire un dignitoso vestito per questa città pur c’era, ma purtroppo non c’erano in giro sarti in grado né di ordirla né tagliarla quella tela. Rileggo il suo disappunto rispetto ai tanti temi che riguardavano il recupero anche di una sola pietra che fosse carica di anni e avesse avuto l’onere di rappresentare le minute, sparse vestigia della possibile memoria collettiva di questa città. Questo suo amore per il recupero, la catalogazione e la conservazione di qualsivoglia documento riguardante questa città mi convinse ad affidargli una parte del mio archivio che conteneva alcune recenti cronache di storia locale: in mano sua quei documenti sarebbero stati più sicuri e di certo più frequentati, perché Gino oltre alla passione di possedere libri e atti aveva anche il difetto di leggerli e quindi di sapere quello che contenevano e quindi saperlo riproporre. Lo faceva, lo sapeva fare e quando l’uditorio gli dava prova di ascoltarlo, gli si vedevano sorridere a denti stretti anche gli occhi: è l’immagine più preziosa che conservo di quest’amico che ha avuto il dono di sapersi guardare intorno e ricavare una lezione che forse è più utile a noi di quanto lo sia stato a lui.
Ne abbiamo parlato a lungo una sera mentre attraversavamo il centro antico. E si sa, una pietra tira l’altra… e intanto il tempo passava e la foschia della notte cominciava a intrupparci in un carpaccio di sigarette aspirate a pieni polmoni e a labbra strette, mentre le mani si rinserravano più in fondo che mai, dentro le tasche [ avrei smesso di fumare qualche anno dopo, per mai più riprendere, Deo gratias! ].

Non so chi abbia cominciato, ma la discussione è andata avanti tra organizzazione feudale e piccola proprietà nella nostra zona: la sacralità del diritto, della fedeltà, della dignità di chi vive del lavoro, delle paure del buio notturno contro cui era utile sbarrare la porta col puntale alto un palmo. Il paese era una lista di muri scalcinati, di basoli sconnessi, alcuni addirittura mancanti, eppure davanti alla ‘vecchia’ farmacia il pavé era ben bucciardato e sistemato persino nelle minute confessure. Muri scalcinati e maldipinti ci circondavano; finestre alte con sopraluce e cornicione sette-ottocentesco e con una costola di tufo sempre sbucciato e impennacchiato di capelvenere, bocche di leone o parietaria a sbuffi in perenne mostra, assorbivano le nostre voci. Forse orecchie discrete origliavano i nostri passi gommati che, l’uno dietro l’altro, sopravanzavano la chiesa tardo settecentesca dedicata alla Madonna dai superbi boccoli. At illa cruce, ci ripetevamo, tronfi e forti dell'inevitabile suggestione, il nome del luogo in antico: un toponimo che da solo bastava a farci pensare che, oltre alle acque dei Lagni da Somma, la Storia fosse passata sul serio anche di lì... e invece ad affiorare era solo un po’ di quel Medioevo che con la sua dispersione era stato capace di disseminare la vita un po’ dovunque...
Più avanti sulla nostra destra sorpassammo in fretta quel palazzotto di una certa dignità la cui scala di accesso ai piani nobili ricordava le costruzioni sanfeliciane; avrà avuto una sua blasonata dignità quando fu costruita quella casa, anche per il largo terrazzo che non ha mai dato l’impressione di caderti addosso siccome messo piede nell’ingresso. Alla scala si affiancava una vecchia osteria, sempre piena nelle stesse ore, delle stesse facce. Facce antiche, da cauponae di fescennina memoria, scavate da rughe irte di peli mal lavati, che cantavano strofe piene di merabolanti endecasillabi ma terribilmente passate di moda. Cercavamo nel loro ritmo la suggestione di una storia che non era mai stata del tutto in nostro possesso... Un nastro, un nastro magnetico ancora deve ballare da qualche parte tra le sue scatole piene di carte e documenti.

Più in là di bassi dignitosi portali di piperno tutti più o meno rifiniti a mano, restava uno negozio di detersivo, uno dei pochi veramente forniti in zona. Fuori dalle tendine, già a dieci passi, si apprezzava, imperioso, un dolciastro odore di lisciva che, saponando la gola, sapeva farsi persino accattivante. Dentro, la festa dei colori e delle réclame. In alto sugli scaffali, tra polvere e caccole di mosche, si opacavano immensi manifesti di un gobbetto che, come mio padre, si priava delle brillantissime scarpe. Lo gestivano uno strano padre e un più strano figlio, somiglianti come due gocce d’acqua; da ragazzo avevo imparato a distinguerli unicamente per il colore dei capelli. Per il resto erano interscambiabili, dal tono della voce al modo di fare, dal modo di stivare i soldi nel cassetto del banco di abete molte volte rimaneggiato.
Oltre i saponari, seguiva un basso che neppure si poteva definire negozio, ma al cui interno ci si potevano trovare i marchingegni più accattivanti dell’universo: vi aveva bottega un certo Sabatino. Più che una bottega era un vero atelièr di ferramenta: per lo più chiodi e gesso imbustati dentro ampie fogli di giornali, ma nelle scaffalature dai mille cassettini, c’era la banca delle meraviglie. Ad ogni tirata, infiniti oggetti e curiosità ne fuoriuscivano: chiavi di ardite e antichissime fogge, maniglie di ottone sbalzato e osso di porcellana, alcune addirittura di cammeo di cui, probabilmente, non se ne vendeva un solo pezzo da mezzo secolo prima, e poi fibbie, catenelle, rotelle, licchetti, che facevano sempre pensare a una nave da costruirsi da sé e sulla quale involarsi per quella rotta Suez-Calcutta-Argentina sempre sognata tra storie da libri ingialliti e copertine fantasiosamente illustrate.

E passo dopo passo, tiro dopo tiro, ci lasciammo dietro la casa del sarto scampato alla terribile malattia sanguigna che avrebbe dovuto ucciderlo in breve tempo e che invece, a dispetto del canchero, gli lasciò cucire ancora molti mezzi punti su baveri e colli, orgoglio della sartoria locale. Aveva un banco di lavoro di castagno tutto annerito di caffè e brucacciato per le mille e passa sigarette appena accese e subito dopo lasciate a consumare, dopo l'ennesima presa di caffè, che inevitabilmente finiva per rovesciarsi molto spesso. Un cenno d’occhio ed ecco il salone del barbiere violinista che non ha mai insegnato a nessuno a strappare languidi lamenti alle sottili corde, ma si accompagnava a un giovane fisarmonicista, il cui vero interesse era la figlia Maddalena, coi suoi grandi occhi verde muschio da far trillare perfino il cuore del vecchio sciancato violino. Seguendo un’invitante scia di vaniglia, ci trovammo poi davanti la pasticceria di finissima creazione del buon don Mario: roccocò mustacciuoli natalizi e zeppole per San Giuseppe, cassate e gateaux da sposalizi e spumoni d’estate, fumiganti sotto prodigiose pietre di ghiaccio secco. Tutta la dolcezza degli ultimi cinquant’anni era passata un giorno per quel laboratorio, le cui pareti sentivano di Strega e Millefiori, di traboccante e barocca frutta candita. A quella meraviglia di glucosio e colori, di paste domenicali e fagottini di marzapane per le fidanzate, dedicammo idealmente un mazzo di gladioli bianchi come quelli presenti nelle tante feste allietate dal suo mitico “coloniali” .


                                                                
Poco dopo veniva la chiesa madre con la sua piazzetta segnata dai piloncini di piperno e dai martelli battenti sull’incudine degli unici fabbri rimasti a stornire la nostra saturnina fantasia e i loro articolati arnesi campagnoli... Più delle campane del profilato campanile, erano i loro rintocchi a rintronare dentro la cupola ovattata di raggi e passeri entrati per caso e sembravano star bene dentro l’affresco di quel Taglialatela che per anni ho cercato di afferrare col naso per aria, cercando di vedere dove finiva la schiera degli angeli che liberavano il santo, spezzando le catene, e cantavano: Gloria in excelsis deo.  Non era vero, non lo dicevano e nemmeno lo cantavano, ma noi credevamo lo facessero... Passata la torre dell’Orologio che ormai, come le stelle, non pulsa né si sente più neanche di notte, c’era il giardino del funaio, immensamente occupato da una grande ruota di legno cui erano adesi almeno tre o quattro capi di corda che poi l’abilità del mastro imbrogliava tra loro fino a ricavarne una sola doppia soda fune. La sola che poteva competere con la bravura del mastro era una pianta di fico a un lato del cancello che d’estate faceva una piacevolissima frescura e impediva alle vecchia mura di scalcinarsi tra polvere di pozzolana e salmastro...

Oltre quel punto, cominciava il medioevo vero. La città si dilatava e si perdeva dentro la campagna; quartieri di stradine mal ricavate per alloggiare piccole case di proprietari ancora più piccoli e sconfezionati a ogni buon vivere: case da rape e broccoli eternamente presenti sulla tavola serale, dalle camere da letto in perenne rigore invernale, visitabili solo dal medico di famiglia per scansare malattie. Gli occhi scorrevano la tapezzeria come le mani le costole, entrambe sapevano di deserte, previste geometrie: la deferenza, l’affetto talvolta, la gallina o il vino per Natale, un saluto e un caffè entrambi mandati giù in fretta sopra una indecifrabile prescrizione.

Insieme alle case, ci lasciammo dietro un bel tratto di campagna, abbiamo preso la vecchia strada che costeggiava la grande vasca delle lave vesuviane, dove le volpi e le faine scavano cunicoli profondi e caldi di rena scura. Approdammo che quasi voleva albeggiare, ma non era ancora mattino, a quel borgo di tetti lisci, come capitani di ventura che conoscono a memoria il campo nemico, sorprendendo tutti nel sonno. Di lì siamo ritornati, rifacendo lo stesso percorso; ma quello del ritorno non sembrava più quello dell’andata, tante erano le cose che ritornavano, i personaggi che affollavano le cronache di una memoria neanche tanto lunga a essere franchi. Non saprei dire quanti di quei personaggi sono ancora lì; qualcuno di certo sarà trapassato, qualche altro ancora vive e si smemora di noi, di Luigi, degli anni che passano e delle tracce che ciascuno lascia...
Forse per questo gli uomini hanno inventato i libri; i tanti libri che ci ricordano Luigi De Falco e il suo semplice immenso umanesimo.

Nessun commento:

Posta un commento

Grazie per aver visitato questo blog.
Suggeriscilo ai tuoi amici.