domenica 9 giugno 2013

La storia dell’Alfasud a Pomigliano. Evento “Pomigliano industriale: una questione settentrionale”

da Dedicato a Pomigliano d'Arco (Note) Lunedì 23 aprile 2012 alle ore 18.08


Il modello Alfasud prodotto a Pomigliano
La storia dell’Alfasud a Pomigliano. Evento “Pomigliano industriale: una questione settentrionale”
Presentazione di Luigi Iodice
La Pagina “Dedicato a Pomigliano d’Arco”, nell’ambito dell’evento “Pomigliano industriale: una questione settentrionale” affronta con almeno tre diverse note la questione della nascita dello stabilimento industriale automobilistico Alfasud, i motivi della scelta di Pomigliano,  i suoi personaggi di rilievo, l’analisi delle vicende e vicissitudini sia dello stabilimento di Pomigliano che della casa madre (l’Alfa Romeo), le interferenze politiche e della Fiat, la vendita dell’intera Alfa Romeo alla Fiat ad un prezzo mai conosciuto interamente in una dubbia e controversa  competizione con la Ford, la produzione automobilistica a Pomigliano. Ci occupiamo in definitiva della nascita di una speranza meridionale che si è trasformata nella fine del “mito ALFA”.
Questa prima nota riguarda la nascita, gli anni critici dell’Alfasud  e  la sua fine,  le dimissioni  del suo Top Manager , il Presidente Giuseppe Luraghi,   per contrasti con la politica nel tentativo di salvaguardare la economicità dell’azienda che dirigeva.

Abbiamo scelto per questa nota  un documento inedito, edito dalla Banca d’Italia , e precisamente una parte de:  La politica dei poli di sviluppo nel Mezzogiorno. Elementi per una prospettiva storica di Elio Cerrito (della Banca d’Italia)- Quaderni di Storia Economica (Economic History Working Papers), Numero 3 di giugno 2010, edito dalla Banca d’Italia.
Il lavoro di Elio Cerrito è una rassegna della letteratura sulla politica dei poli di sviluppo attuata in Italia, dagli anni ’50 alla fine degli anni ’80 del XX secolo. Il testo è diviso in tre parti. Le prime due sono dedicate a due importanti casi: il IV Centro siderurgico e l’Alfasud; la terza parte riassume limiti e successi dell’esperienza dei poli. Mentre i limiti di questa politica sono noti, non altrettanto gli aspetti positivi.
I tre principali risultati della politica dei poli sono stati: il radicamento di un numero consistente di grandi imprese redditizie nel Mezzogiorno; la capacità dei poli di costituire nel lungo periodo centri vitali attrattivi di investimenti; la capacità, in alcuni casi, di generare indotto.
Offriamo in lettura, pertanto, una seria analisi delle vicende dell’Alfasud basate su una vasta letteratura e bibliografia citata alla fine del Quaderno medesimo. Le note più significative risalenti ad autori citati nella suddetta bibliografia sono trascritte e riportate in corsivo. Con la seconda nota successiva parleremo dei personaggi che hanno fatto la storia dell’Alfasud: l’Ing, Rudolf  “Rudy” Hrusca, progettista dell’Alfasud, e l’Ing. Giuseppe Luraghi , presidente dell’Alfa Romeo e dell’Alfasud. Con la terza nota successiva parleremo della vendita dell’Afa Romeo alla Fiat  in opposizione alla Ford.
Concluderemo con un elenco della produzione delle auto uscite dallo stabilimento di Pomigliano fino al 2010.


La nascita dell’Alfasud

1. Il processo decisionale

L’Alfasud (Industria Napoletana Costruzioni Autoveicoli Alfa Romeo Alfasud S.p.A.)
nasce per iniziativa pubblica a Pomigliano d’Arco, in un contesto già marcato da altri
importanti insediamenti di meccanica avanzata, in particolare nel settore dei mezzi da
trasporto (De Masi e Signorelli (1973, p. 101). “Nel 1961, infatti, l’occupazione dell’industria meccanica era nell’area del 26% del totale dell’occupazione industriale, mentre nella regione, tale percentuale era di appena il 17%”. Tra ’51 e ’61 l’occupazione industriale nell’area è in continuo aumento).

L'Ing. Giuseppe Luraghi, Presidente dell'Alfa Romeo all'epoca della costruzione dell'Alfasud
Ciò fa dell’insediamento Alfasud un caso nettamente diverso dalle cosiddette “cattedrali nel deserto”( “I due grandi complessi industriali, insediati a Pomigliano d’Arco prima dell’Alfa-Sud, sono sorti rispettivamente nel 1939 e 1949. Lo stabilimento Alfa Romeo è quello che ha dato l’avvio al processo d’industrializzazione; fa parte del gruppo I.R.I., sorge su un’area di 400.000 m2 e occupa la parte orientale della vecchia area industriale. Possiede un reparto avio (che esegue lavori di revisione dei motori aerei della N.A.T.O. e dell’Alitalia) e un reparto che costruisce motori per l’Alfa Romeo di Milano e per la Renault. Gli addetti sono circa 2.800.
L’Aeritalia sorse con la denominazione sociale di Aerfer (costruzioni aeree e ferroviarie); fa parte del gruppo I.R.I. e si è impegnata, all’inizio della sua attività, nella costruzione di carrozzerie di autobus, cellule di aerei supersonici e pezzi ultraleggeri per satelliti artificiali. Dal 1965 costruisce parti di ricambio del reattore F846, parte dei DC10 e di altri tipi di aerei militari e civili.

29 Aprile 1968. L'Ing. Luraghi e l'On. Aldo Moro. Posa della prima pietra dell'Alfasud a Pomigliano
Lo stabilimento è dotato di macchinari ed attrezzature (la maggior parte dei quali sono stati installati dal 1965 in poi), che sono ritenuti tra i più moderni, nel loro genere, d’Europa. L’alto grado di perfezione degli impianti e le notevoli capacità dei dirigenti e delle maestranze hanno contribuito all’affermazione dell’Azienda in Italia e all’estero, tanto che oggi essa lavora quasi esclusivamente per conto di grosse società che operano nel campo
aeronautico dell’America settentrionale e della N.A.T.O. Lo stabilimento è situato ad occidente della vecchia area industriale, copre una superficie di circa 400.000 m2 ed occupa 4.000 dipendenti” (Liglia 1979, p. 393 n.). Per lo stabilimento Alfa Romeo a Pomigliano, cfr. anche Vitale, Corbetta e Mazzuca (2004, pp. 26-27, 31, 38-39)..

L’Alfasud beneficia delle agevolazioni della politica di intervento per il Mezzogiorno.
“Il costo dell’opera è stato coperto dalla Società sia con operazioni creditizie a tassoagevolato, sia con contributi a fondo perduto, erogati dalla Cassa per il Mezzogiorno”.

La società nacque il 17 gennaio 1968 con “sede sociale dichiarata a Napoli”; il capitale iniziale di 400 milioni era sottoscritto per il 2% dall’IRI, per il 10% dalla sua controllataFinmeccanica e per l’88% dall’Alfa Romeo; il finanziamento iniziale ammontava a 120miliardi, la spesa complessiva per gli impianti fu di circa 300 miliardi, dei quali il 50%
finanziati a tasso agevolato in base alla normativa per l’industrializzazione delMezzogiorno . L’attività produttiva iniziò nel febbraio 1972. Luraghi era nominatopresidente della società .

29 Aprile 1968. Cerimonia posa prima pietra (foto Italy's News Photos)
Il risanamento post bellico dell’Alfa Romeo era stato completato con il successo deinuovi modelli; l’Alfa Romeo sarebbe rimasta a lungo profittevole (Luraghi (1975, p. VI). Nel 1966 l’Alfa Romeo aveva chiuso il bilancio con un utile netto di 713 milioni e ammortamenti per 8.700 milioni; “nel 1967 l’utile salì a 4.354 milioni con 9.262 milioni di ammortamenti; nel 1968 l’utile fu di 11.065 milioni con 12.296 milioni di ammortamenti; nel 1969 l’utile raggiunse 11.894 milionicon 13.091 milioni di ammortamenti. Gli autunni caldi incisero sensibilmente sui risultati, che in seguito furono i seguenti: 1970 utile 6.549 milioni con 12.068 milioni di ammortamenti; 1971 utile 3.688 milioni con 11.766 milioni di ammortamenti; 1972 utile 2.661 milioni con 16.098 milioni di ammortamenti” (Luraghi 1975, p. VI n.). Nel 1973 l’Alfa Romeo era la seconda industria meccanica italiana, con la produzione di 208.000 vetture circa, oltre 79.000 delle quali erano rappresentate dal nuovo modello costruito a Pomigliano. Per lo studio del mercato automobilistico nazionale, si veda inoltre De Rosa (1967).

Hruska e Luraghi
Con il ritorno alla redditività, la valutazione che il mercato automobilistico italiano avrebbe avuto una forte espansione nel segmento 1.000-1.500 cc., tale da non poter essere soddisfatta dal potenziale produttivo nazionale e da rendere auspicabile una maggiore dimensione aziendale, era alla base del progetto; tra 1966 e 1981 si calcolava il raddoppio della produzione nazionale a fronte della crescita della domanda nazionale ed estera, per un totale di 2,6-2,7 milioni di vetture all’anno. “Gli studi furono estesi – scrive Luraghi – ai vari tipi di vetture in base ai prezzi e alle tendenze della clientela, e conclusero in modo totalmente positivo circa la possibilità di realizzare la programmata fabbrica per 1.000 vetture giornaliere del tipo previsto e progettato”, cui si sarebbero aggiunte altre mille da produrre ad Arese per gli altri modelli.

In base a tale situazione aziendale, si giunse intorno al 1966 alla decisione dell’IRI, che controllava l’Alfa Romeo, di dar vita al progetto di una nuova vettura e di un nuovo stabilimento automobilistico; concorsero parimenti considerazioni riguardo l’impegno dell’IRI di effettuare nuovi investimenti nel Sud, la difficoltà di reperimento di manodopera al Nord e i problemi di congestione che già vi si avvertivano; si mettevano espressamente in conto i benefici finanziari che il quadro normativo assicurava ad un investimento localizzato nel Mezzogiorno e le difficoltà di nuovi investimenti in aree settentrionali; si contemplava la disponibilità a Pomigliano di una sicura e sperimentata base di partenza per l’Alfa; si calcolava che un’industria automobilistica avrebbe potuto avere indotti molteplici, con lo stimolo di industrie per parti e accessori, di attività commerciali, bancarie, di trasporto, di servizi; si partiva altresì dalla consapevolezza della adeguatezza della manodopera locale.

L'Ing. Rudolf ("Rudy") Hruska, chiamato da Luraghi a progettare l'Alfasud
La presenza pregressa di un altro stabilimento Alfa Romeo era considerata importante come “base di appoggio ad ogni effetto per i tecnici e per la preparazione di parte del personale”; così da rendere del tutto paritaria la localizzazione di Pomigliano sotto il profilo della qualità della manodopera, ma preferibile, almeno in prima istanza, sotto il profilo della prevedibile minore conflittualità: “Dopo un adeguato addestramento – scrive Luraghi –, quando lo vogliono e quando sono messi in condizione di farlo, i lavoratori meridionali sono in grado di compiere gli stessi lavori di quelli di qualsiasi altra zona” ( Luraghi (1975, p. VII). Espressioni dello stesso tenore, positive riguardo le doti di creatività della manodopera di Pomigliano, sono state pronunciate nel corso del convegno “Innovazione e sviluppo dell’industria dell’auto nel Mezzogiorno”, Fisciano, 3 marzo 2008).
 
Luraghi fornisce dunque un quadro preciso del processo decisionale che generò il nuovo insediamento industriale. Se motivazioni di politica economica erano presenti nelle decisioni sulla localizzazione del nuovo stabilimento, il nocciolo era rappresentato da valutazioni riguardanti l’evoluzione del mercato e criteri di economicità degli investimenti.
La scelta era interna all’azienda madre, scevra da “pressioni politiche o di qualsiasi altra natura”. Tuttavia, “una volta conosciuta, l’iniziativa venne sfruttata anche da politici locali che la gabellarono per opera loro, così come altri di opposta tendenza, per pure ragioni di contrasto, vi si erano opposti […] si è trattato di una iniziativa basata su considerazioni
razionalmente economiche che fortunatamente potevano trovare una rispondenza sociale e politica”.
Il significato di tale tassello “intimo” del processo decisionale ricostruito da un protagonista della nascita dello stabilimento è duplice. In primo luogo, l’intervento pubblico, capace di affrontare rischi non ben conosciuti e quantificabili dell’insediamento in una nuova area: a) agisce in base ad un piano economico razionale sotto il profilo aziendale e di mercato, b) palesa e rende meglio computabili i rischi per altri attori, c) crea un nuovo terreno competitivo realizzando in termini stringenti un rischio di non-sfruttamento di una regione propizia di competitività (manodopera lontana dai centri congestionati e più conflittuali, incentivi, costi di varia natura minori, ecc.), d) segue sul più lungo periodo il percorso previsto da Saraceno – e radicato in parte importante dei gruppi dirigenti – della grande impresa pubblica ad elevata intensità di capitale come struttura pubblica successivamente da gestire con proprietà e strumenti integralmente privatistici e di mercato .

In secondo luogo, l’intervento pubblico a) crea nuove capacità e tessuti imprenditoriali in particolare nel campo dell’indotto, b) svela nel lungo periodo vocazioni produttive della regione in cui si insedia non immaginate, c) amplia la gamma delle potenzialità di entrata e di innovazione nel settore, limitando le barriere monopolistiche per pressione dell’incombente.
Il progetto fu concepito con sufficiente rapidità e segretezza da schivare ostilità frapposte dalla Fiat (Che non mancò di esercitare pressioni per evitare che l’iniziativa fosse approvata (Vitiello 1973, p. 21; cfr. anche Luraghi 1975, pp. VIII ss.; De Rosa 1967, pp. 897 ss.).
Il disegno delineava tuttavia subito alcuni caratteri di debolezza, proprio per l’attivazione immediata della concorrenza nei processi di innovazione. La Fiat si apprese allora voler creare a Rivalta Torinese una seconda Mirafiori, “e si affacciò lo spettro, fino ad allora mai evocato, di un eccesso di capacità produttiva”; l’obiettivo di 300.000 vetture l’anno dichiarato per il nuovo modello Alfa Romeo era particolarmente ambizioso, in un mercato automobilistico internazionale già caratterizzato da concorrenza e scala crescenti, nonché da difficoltà dei produttori sottodimensionati; l’Iri veniva espresso desiderio nella Relazione previsionale e programmatica del 1967 che concentrasse i suoi sforzi piuttosto in settori sguarniti e innovativi quali l’elettronico e l’aeronautico.

Senonché, da un lato la crisi in atto nell’industria elettronica, dall’altro l’assenza di condizioni nazionali – economiche e di influenza diplomatica – per l’attivazione di consistenti commesse militari e civili indispensabili allo sviluppo di una grande industria aeronautica ed aerospaziale riportavano all’industria automobilistica – e alla concorrenza con le altre case automobilistiche – quale scelta obbligata. Per contro, altri elementi connotavano favorevolmente l’iniziativa: la nuova industria automobilistica nasceva su un progetto di pregio realizzato da un gruppo diretto dall’ingegner Rudolf Hruska, in un settore ad alta intensità di lavoro, in un’area già caratterizzata da una consistente occupazione industriale e colpita dalla crisi industriale della prima metà degli anni ’60. Nel febbraio del 1968 il Cipe approvò la localizzazione dell’impianto; un decreto ministeriale del marzo successivo fissò un quadro normativo che permetteva di superincentivare l’insediamento al Sud di grandi industrie (Si tratta del D.M. 23 marzo 1968, in G.U. n. 112 del 4 maggio 1968. Il provvedimento elevava al 50%  dell’investimento il finanziamento concedibile, e portava fino al 12% il contributo in conto capitale (art. 1), subordinando i benefici alla rilevanza almeno nazionale delle industrie da finanziare e ad altre condizioni (art.2).
L’Alfasud nacque su un vecchio aeroporto di proprietà dell’Alfa Romeo86, vicino all’altro stabilimento Alfa operante da prima della guerra  (Fatto costruire da Mussolini nel 1939, era stato dopo la guerra riattivato e dato in  concessione all’Accademia  Aeronautica; l’Alfa Romeo ne aveva acquistato 2,36 milioni di mq. (De Masi e Signorelli 1973, p. 82).. Ciò consentiva di abbreviare i tempi della costruzione dell’impianto e intercettare con maggiore rapidità la domanda montante per il segmento prescelto per il nuovo modello88. La congestione dell’area – pur non paragonabile a quella settentrionale – costituiva un problema, benché limitata in aree meridionali più interne dal quasi parallelo insediamento di stabilimenti della Fiat, che favorirono una localizzazione più decentrata dei subfornitori.
 

2. Anni critici

L’esperimento dell’Alfasud – per parte della letteratura, anche a causa della subordinazione dello stabilimento alle logiche della casa madre – fu caratterizzato da fondamentali elementi di criticità dell’ambiente e delle strategie aziendali, che ne fecero a lungo uno stabilimento che lavorava largamente al di sotto del proprio potenziale produttivo e della domanda. (Nel 1976 vengono ad esempio prodotte 100.000 vetture, quando lo stabilimento è progettato per un ordine di circa 170.000 vetture annue; ma la domanda è superiore alla produzione, “per le ottime qualità meccaniche e le
eccellenti prestazioni sportive”, e l’azienda non riesce a far fronte agli impegni con la clientela nazionale ed  estera; sempre al 1976 l’azienda ha 16.000 dipendenti circa, 80 dirigenti, 3.000 impiegati e 13.000 operai (Liglia 1979, p. 395. Per l’impatto dello stabilimento sull’area di insediamento, si consideri che la popolazione di Pomigliano ammontava a 25.000 abitanti circa nel 1971, passati a fine anni ’70 a 35.000 circa (Liglia 1979, p. 396).
 
Nel 1972 la produzione di Alfasud è di 28 mila vetture, nel 1973 di oltre 70 mila, circa la metà della domanda. Ma il problema non sta nella domanda, sta nella produttività e nella produzione insufficienti.
Le assunzioni di Pomigliano, racconterà Indro Montanelli […], saranno “un test avvilente della corruzione e del clientelismo meridionali, un campione da manuale del fenomeno chiamato camorra”.
Nel 1973 l’Alfasud chiude con un cash flow negativo di 32 miliardi […]. L’Alfasud inanella da subito una successione di gravi perdite: 430 miliardi di lire nel periodo 1974-79 che, sul piano finanziario, si aggiungono ai 300 miliardi di investimenti. Dietro queste cifre c’è un livello di saturazione degli impianti del 30 per cento; un numero di dipendenti eccessivo, 15.727 dipendenti nel 1974 per centomila auto prodotte; un costo del personale per valore aggiunto del 126 per cento contro una media europea del 71,9 per cento […]; con un atteggiamento poco deciso della direzione nei confronti degli abusi dei lavoratori e dei sindacati; con fenomeni di microconflittualità esasperati; con un immobilismo dell’IRI e della Finmeccanica (Vitale, Corbetta e Mazzuca (2004, p. 50); cfr. anche Crepax (2005, pp. 362-363).

Secondo una valutazione che accomuna tutte le correnti interpretative, un fondamentale punto di debolezza del polo Alfasud di Pomigliano si radica nei processi genetici della nuova fabbrica, e in particolare nel conflitto sociale generato dalla gestione dei processi di primo impianto e di reclutamento, per colpa della politica, locale e nazionale, ma anche di alcuni errori della casa automobilistica. In tale ottica, la criticità subito emersa dello stabilimento Alfasud viene ricondotta da un lato a varie forme di fallimento dello Stato, sia nelle sue capacità di gestione aziendale del lavoro, che nella più ampia prospettiva delle dinamiche distruttive innescate dal ceto amministrativo e politico quale tutore del contesto in cui lo stabilimento doveva operare rispettando vincoli di economicità; dall’altro, viene ricondotta a tensioni tipiche dell’insediamento di una grande iniziativa industriale in un’area con ritardi nello sviluppo e dunque caratterizzata da gravi tensioni sociali.

Gianni Agnelli e l'Alfasud
Il punto fondamentale con cui politici locali e nazionali e la stessa popolazione locale rappresentavano il nuovo insediamento industriale si incentrava su effetti – in parte reali, in parte millantati per retorica elettoralistica – di carattere occupazionale . Questi ebbero peraltro subito carattere tangibile. Ad agosto 1968 sotto la direzione di una azienda IRI, la Società Italiana Impianti, iniziarono i lavori per la costruzione del primo reparto. Sarebbero
stati in breve migliaia gli edili di imprese subappaltatrici impegnati nella edificazione dello stabilimento e per le abitazioni civili, “che i costruttori, soprattutto locali, si affrettarono a predisporre soprattutto in vista della domanda addizionale, che si prevedeva con l’incremento della popolazione” per immigrazione e cause naturali .
 
Non si trattava, si è detto, di una “cattedrale nel deserto”; alcuni faranno notare che si trattava piuttosto di una iniziativa in un “cimitero” industriale (Così ad esempio De Masi e Signorelli (1973, p. 115): tra 1969 e 1973 si chiudono nella provincia di Napoli 21 mila posti di lavoro nell’industria, di cui 7 mila nel solo settore metalmeccanico, secondo il segretario provinciale della FIOM; e per la crisi diffusa e di lungo periodo dell’industria pomiglianese, cfr. Liglia (1979, p. 401). Così molti degli occupati all’Alfasud provengono da vecchia occupazione industriale dell’area, mentre modesta per varie ragioni è la quota di occupati agricoli che aspirano all’assunzione nel nuovo stabilimento (De Masi e Signorelli 1973, pp. 146-150).
Il reclutamento della manodopera fu effettuato in due tempi. Dapprima furono assunti tecnici e manodopera specializzata, attraverso inserzioni su giornali del Nord ed esteri. La parte maggiore degli operai fu invece reclutata in base alla procedura prevista da un decreto del 1971 che prevedeva di passare attraverso gli uffici di collocamento provinciali e comunali con la imposizione di quote definite . L’agitazione politica contribuì a far lievitare esponenzialmente le offerte di impiego; a fine 1969 erano già pervenute all’Alfasud 80.000 offerte di lavoratori di vario tipo; a inizio ’71, tra rinnovi di richieste e nuove offerte, si toccò “la vetta di 160.000 unità”, e si parla anche di un totale di 200.000 offerte.
L’affermazione di uno standard produttivistico per le assunzioni all’interno del mercato del lavoro campano era tuttaltro che impossibile.

Collocando le officine a Pomigliano d’Arco, la Ditta si era posta in buona posizione rispetto ad uno dei mercati urbani del lavoro più vasti d’Italia. […] l’occupazione agricola maschile nella regione era pari al 14,5% delle forze di lavoro. Non si trattava cioè di un avamposto dell’industria, ma di un mercato urbano del lavoro con un consistente settore moderno

Di tale asset per vari fattori l’Alfasud non poté beneficiare in misura sufficiente a garantire il successo dell’intrapresa.
Le dinamiche innescate nel mercato del lavoro si rivelano peraltro complesse. Un primo effetto è rappresentato dall’attrazione comunque esercitata sulla occupazione industriale qualificata locale, “con conseguenze nocive, non solo per le piccole aziende già esistenti, ma anche per le eventuali nuove aziende satelliti che fossero attratte dalla presenza dello stabilimento di Pomigliano e che, in tal caso, verrebbero scoraggiate dalla totale mancanza di manodopera qualificata”. Per contro, un polo di creazione di lavoro di tali dimensioni richiama – anche ex novo – nel mercato del lavoro forza lavoro non qualificata e che era uscita dal mercato, ciò che contribuisce a spiegare l’elevato numero di persone che hanno offerto il loro lavoro all’Alfasud . Nel luglio 1970, sostenuti da sindacati e gruppi extraparlamentari, entrarono in agitazione gli edili dello stabilimento, e ottennero dall’azienda di reclutare manodopopera anche tra gli edili in possesso di alcuni requisiti; nuove agitazioni in ottobre abbassarono i requisiti di assunzione e per gli edili si ampliarono le assunzioni “a maglie larghe” .

Mentre l’arrivo dal Nord degli operai anziani e degli impiegati che avevano lavorato al progetto destava sospetti e diffidenze, il malcontento, secondo una corrente della letteratura, caratterizzò da subito la vita di fabbrica: pratiche di minuta vessazione, lamentele per l’alimentazione, l’equipaggiamento, la sicurezza, l’alloggiamento. Nel maggio ’71 si aprì un fossato incolmabile tra sindacati e direzione; si manifestò, prima ancora che lo stabilimento entrasse a pieno regime, l’entità delle difficoltà già accumulatesi. Ad una apertura dell’Iri alla sperimentazione organizzativa, tesa a migliorare le relazioni industriali interne al gruppo, i sindacati risposero che occorreva cominciare dal settore automobilistico. L’Alfa Romeo rifiutò nettamente la proposta; le federazioni provinciali napoletane riproposero all’Alfa le richieste in una piattaforma rivendicativa; il negoziato si sviluppò in una frattura fra dipendenti settentrionali e meridionali. Il sistema della separatezza e della diffidenza sembra così informare tutti i principali aspetti della vita Alfasud, dalla impermeabilità degli ambienti direttivi alla presenza di meridionali alle politiche per la casa, alla frattura fra il gruppo dirigente dell’Alfasud e i gruppi dirigenti locali. E’ palese la presenza di relazioni reciproche di minaccia e dunque di richiesta di sottomissione difficile da ottenere; è palese altresì la carenza di un tessuto connettivo in cui gli attori possano trovare un terreno di cooperazione in relazioni di status integrative coerenti con i processi lavorativi. Questo ultimo dato è coessenziale al primo, e viene da domandarsi perché a inizio anni ’70 siano mutati i contesti che avevano invece garantito a Pomigliano per alcuni decenni lo sviluppo delle vecchie Alfa Romeo e Aerfer.


3. Salvaguardia della economicità e indotto: la visione del management

Grazie a Luraghi, come già visto, per una lettura della nascita dell’Alfasud diversa da quella fornita dai sociologi, si dispone di importanti documenti che entrano in profondità all’in terno di un segmento importante del processo decisionale – obiettivi, ragionamenti ed atti di uno dei maggiori protagonisti della costituzione dell’Alfasud. Luraghi su quegli anni fornisce altresì l’interpretazione da parte del management di alcuni degli eventi e problemi al centro dell’attenzione della letteratura sociologica. (Si tratta in primo luogo della ricostruzione delle vicende che vanno dalla decisione dell’impianto dello stabilimento a Pomigliano fino all’allontanamento di Luraghi e dell’amministratore delegato (e progettista della autovettura) ing. Hruska, contenuta in Luraghi (1975). Su Luraghi   su alcune vicende dello stabilimento di Pomigliano e su alcune vicende dello stabilimento di Pomigliano, cfr. anche Crepax (2005); la voce Luraghi curata da N. Crepax, in “Dizionario biografico degli Italiani”, Roma, Gianola (2000).
 
Due ragioni fondamentali sono individuate come responsabili delle difficoltà dello stabilimento . La prima sono le interferenze nel piano di reclutamento della manodopera, ad opera anche della politica nazionale, che aprirono anche a pressioni della camorra e portarono all’assunzione di personale inidoneo alla disciplina di fabbrica. La seconda, la
delegittimazione del gruppo dirigente provocata da continue sostituzioni delle principali cariche.

Per quanto attiene l’indotto, Luraghi contesta con argomenti originali lo stereotipo dell’Alfasud come cattedrale nel deserto, reperibile nella pubblicistica coeva.
Si deve innanzitutto considerare un indotto atipico – e il più rilevante –, per emulazione e marcamento competitivo, che rappresenta il risultato sul quale non senza ragione si insiste. Rompendo il tabù della impossibilità di fare automobili nel Mezzogiorno, l’Alfa Romeo scommetteva sui vantaggi industriali e le potenzialità delle aree meridionali, e dava il via a una serie di investimenti automobilistici privati nel Sud Italia tesi ad evitare i molteplici problemi di congestione e conflittualità che il Settentrione presentava. Numerosi nuovi stabilimenti automobilistici della concorrenza vennero impiantati  in varie aree del Mezzogiorno dopo la decisione dell’Alfasud, dislocando nel Mezzogiorno buona parte della capa cità produttiva nazionale dell’automotive.

In secondo luogo, con diretta attinenza alle attività funzionalmente connesse al ciclo produttivo del polo di Pomigliano, a parte l’enorme impulso a catena procurato in tutta la zona ai trasporti, al commercio, alla costruzione edilizia, agli artigiani di molti settori, alle banche, alle assicurazioni ed in genere a tutte le attività terziarie, […] l’iniziativa, senza fare impossibili miracoli, ha fruttato la creazione di un complesso di aziende produttrici di parti e di accessori, già cospicua e in rapido aumento, importando al Sud tecniche nuove e possibilità di sviluppo internazionale.
Il riferimento di Luraghi trova riscontro anche solo nel brevissimo periodo in iniziative collegate all’Alfasud “quali la Gallino-Sud (volanti e poliuretani espansi), la Fapsa (cavetterie), la Ivi-Sud (vernici), la Fimit-Sud (isolanti e antirombo) e la Far di Castelnuovo (batterie e pile)”110; a inizio anni ’80, almeno 7 aziende metalmeccaniche della provincia di Avellino che lavorano nel settore dell’auto su un campione di 12 aziende metal meccaniche intervistate attribuiscono la loro scelta localizzativa all’avvio dell’attività dell’Alfasud.

L'Ing. Luraghi ad una manifestazione Alfasud
A chi manifestasse il proposito di attivarsi come fornitore esterno, l’Alfasud forniva elenchi dei semilavorati, delle parti, degli accessori dei quali avrebbe avuto bisogno, purché prodotti a prezzi e con qualità competitivi sul mercato internazionale112. Vi fu anche assistenza diretta all’impianto di nuove industrie.

Contemporaneamente gli uffici competenti della società fornivano a tutti coloro che lo desideravano e dimostravano intenzioni serie, le informazioni tecniche ed economiche necessarie di cui disponevano, suggerendo e facilitando accordi con gruppi di mestieri in possesso della necessaria tecnologia e disposti ad associarsi ad imprenditori meridionali per la creazione di nuove fabbriche. Non poche iniziative soprattutto facenti capo alla Sme e all’Efim, devono la loro realizzazione non solo ai nostri incoraggiamenti bensì anche ai nostri interventi.
 
Alfasud Valentino
 Luraghi sottolinea la capacità dell’industria automobilistica di generare indotto in tempi relativamente rapidi rispetto ad altre industrie114, e respinge l’accusa che l’Alfasud costituisca una “cattedrale nel deserto” persino in riferimento al periodo assai breve che intercorre  tra la posa della prima pietra dello stabilimento e – a metà anni ’70 – i primissimi anni di attività dell’impianto, nonostante la nascita dell’Alfasud sia “coincisa nel tempo con una crisi nazionale di investimenti a causa di una situazione economico-sindacale che non incoraggia nuove iniziative tanto nel Nord come al Sud”.

Una indagine sull’indotto dell’Alfasud in area nolana – nel 1973 i dipendenti Alfasud residenti nell’area sono ragguagliabili a circa il 34,5% del totale dei dipendenti dello stabilimento  – rivela fenomeni contrastanti. La dinamica della popolazione mostra effetti di attrazione, che gli autori della ricerca imputano all’impianto dell’Alfasud. Tra ’61 e ’71 – nel decennio dunque in cui si avvia la costruzione dello stabilimento – la popolazione campana cresce del 7,8%, la popolazione dell’area nolana del 10,49%, la popolazione dei comuni nolani direttamente adiacenti l’impianto cresce del 17% circa. Il fenomeno è qualitativamente simile a quello che si registra a Taranto a seguito dell’impianto del IV Centro siderurgico. La crescita della popolazione nei comuni adiacenti l’Alfasud testimonia un flusso immigratorio – a detta degli autori dall’anno di insediamento della nuova azienda – dalla regione e da altre regioni meridionali. Nel medesimo tempo, crescono gli iscritti al collocamento per effetto congiunto delle nuove norme sul collocamento e per l’emersione di un’ampia disoccupazione nascosta grazie alle aspettative innescate dall’Alfasud.

(da Archivio storico FIOM-CGIL della Campania)
Cala di 7 punti circa il tasso di attività; cala – secondo altri – la percentuale degli occupati per il carattere di famiglie monoreddito dei nuclei familiari attratti ex novo nell’area. Anche confrontando le dinamiche precedenti e successive all’inizio dei lavori per l’impianto industriale si giunge allo stesso risultato. A Pomigliano, fino al 1966 c’è emigrazione netta verso altre località; dal 1967 c’è inversione di tendenza; negli anni “1968-69 gli immigrati nel comune di Pomigliano aumentano del 400 per cento, soprattutto quelli provenienti da altri comuni della provincia di Napoli”, ed intensa è in particolare l’immigrazione negli anni che precedono l’entrata a pieno regime dell’impianto. Tra 1951 e 1971, l’occupazione manifatturiera dell’area cresce del 127%, soprattutto nei settori avanzati che giungono al 77% dell’occupazione manifatturiera. Cedono invece il settore alimentare e l’industria tradizionale.
L’indotto teorico industriale locale generato dalla domanda (meglio, dalla massa salariale) Alfasud (un’azienda di circa 15.000 dipendenti) nell’area che accoglie circa un terzo dei suoi addetti può calcolarsi nel breve periodo in circa 450-500 nuovi occupati, parte dei quali sostitutivi di una diminuzione dell’occupazione industriale che caratterizza la provincia e si sarebbe probabilmente prodotta anche nell’area nolana124.
In definitiva, emergerebbe una limitata e controversa influenza dell’insediamento Alfasud sotto il profilo dell’impatto della massa salariale. I risultati dell’indagine scontano tuttavia, come per la maggior parte degli studi, quattro pecche: non misurano correttamente l’impatto del nuovo investimento in rapporto alle tendenze spontanee in assenza dell’investimento stesso; non possono tener conto del ciclo economico, in particolare di quello dei singoli settori e subaree; l’indagine si limita a risultati di breve-medio periodo, e non possono cogliersi processi di più lunga maturazione; l’indagine si limita a un’area ristretta, non cogliendo dinamiche che si svolgono su aree più vaste del distretto direttamente interessato dal nuovo insediamento industriale.

(da Archivio storico FIOM-CGIL della Campania)
Proprio con riferimento a una delle dimensioni essenziali della creazione di un ambiente favorevole all’industria e allo sviluppo locale, la diffusione di capacità tecniche e imprenditoriali, si articola un ulteriore punto della visione di Luraghi. Egli respinge l’accusa di una visione “coloniale” dell’Alfasud, meramente dipendente da altri centri Alfa Romeo,
pur riconoscendo la necessità di una gradualità nella acquisizione da parte del personale del nuovo stabilimento di una piena capacità e della assunzione delle responsabilità più complesse. Tuttavia, lo stabilimento ha una sua direzione indipendente dalla casa madre, direzioni impianti, qualità tecnica di  roduzione, amministrativa, acquisti indipendenti, si rifornisce di lamiera di acciaio da Taranto, ha predisposto la produzione di modelli  originali.                                                                                                        
In un passo che, come già visto, va considerato uno dei punti centrali della visione di Luraghi, questi imputa a carenze della legislazione e a interferenze e interessi di ordine politico la genesi di importanti ostacoli di carattere conflittuale, confermando mplicitamente l’imputazione a tale fenomeno di problemi di redditività già desumibile dalla letteratura
sociologica . Tale visione implica una valutazione di carenza di capitale sociale nelle indispensabili capacità amministrative e politiche delle classi dirigenti (non solo strettamente) locali, carenza che non si fonda su carenza di capacità manageriali meridionali, e carenza alla quale, sembra di cogliere, lo stesso impianto di iniziative quali l’Alfasud può avviare un processo di compensazione.
 
(da Archivio storico FIOM-CGIL della Campania)
Sotto un ulteriore profilo, dette interferenze si tradussero nel 1973 in direttive del Cipe che non consentirono all’Alfa Romeo di raggiungere negli stabilimenti di Arese le dimensioni produttive necessarie per la redditività degli impianti; si concretizzarono in pressioni di alcuni politici e di interessi particolari a favore di uno spostamento di capacità
produttiva nel Mezzogiorno, in particolare – nonostante l’offerta di nuovi piani di sviluppo meridionale dell’Alfa “realizzabili rapidamente, […] a forte occupazione e con ottime prospettive di sviluppo” – in un nuovo, terzo stabilimento da realizzare in Campania per la costruzione di 70.000 vetture l’anno “dei modelli prodotti a Milano, ‘con conseguente
alleggerimento delle relative operazioni ad Arese’”; “il trasferimento delle 70 mila vetture nel Mezzogiorno avrebbe significato l’impossibilità di raggiungere negli anni successivi che allora si prevedevano, la produzione di 220/225.000 autovetture all’anno giudicata indispensabile per Arese. Si condannava cioè lo stabilimento settentrionale ad una
dimensione ritenuta non economica”. A tali eventi, ritenuti capaci di minare la vitalità stessa dell’Alfa Romeo, seguirono le “dimissioni” di Luraghi dalla presidenza dell’Alfasud e dalla vice presidenza di Finmeccanica .

(da Archivio storico FIOM-CGIL della Campania)
E’ noto che l’industria automobilistica richiede determinate dimensioni – il riferimento qui è tanto allo stabilimento di Arese che alla crescita del complesso della produzione dell’Alfa Romeo – senza  raggiungere le quali gli impianti risultano antieconomici, in quanto non possono permettere di introdurre via via i più moderni costosi sistemi produttivi sempre più altamente meccanizzati .
Giungendo al cuore della propria ricostruzione, Luraghi inscrive tali patologie in un più ampio e grave fenomeno degenerativo che la vicenda emblematizzò, consistente nella caduta del vincolo di economicità e di bilancio per le partecipazioni statali. In quella degenerazione occorre trovare le radici di uno scostamento dalla originaria visione di parte essenziale dei gruppi dirigenti italiani esplicitata da Saraceno, nonché del processo di ridimensionamento che in seguito le Partecipazioni Statali avrebbero subito dagli anni ’80, gravido di ripercussioni per il Mezzogiorno. L’evoluzione del governo delle partecipazioni statali portava, in direzione opposta, ad assumere obiettivi opachi vagamente sociali, sotto la cui copertura passavano scelte che generavano sistemi industriali non redditivi e autosufficienti . Ne seguivano “inevitabili conseguenze riguardanti l’efficienza di aziende burocratizzate, aziende svuotate di capacità imprenditoriale, il cui costo inevitabilmente finisce a carico della collettività […]”


4. Conclusioni
In conclusione, si possono riassumere aspetti essenziali evidenziati dalla vicenda della nascita dell’Alfasud a Pomigliano.

- Dagli anni ’30, massicci interventi pubblici hanno trasformato una realtà agricola e artigianale in una moderna e avanzata area industriale di successo, capace di avere effetti agglomerativi e sinergie tra vecchi e nuovi investimenti.

- Ciò tuttavia non ha impedito che il problema occupazionale restasse irrisolto nell’ampia area arretrata in cui Pomigliano si collocava.

- La diffusione e rigenerazione del capitale sociale occorrente allo sviluppo industriale non ha avuto luogo. L’impianto Alfasud ha avuto a lungo seri problemi di conflittualità e di bassa produttività, determinati da interferenze nel razionale piano di reclutamento dei dipendenti e da gravi carenze del capitale sociale, dai comportamenti dei ceti
politici alle interferenze della criminalità. Tali interferenze si sono estese dal Mezzogiorno anche agli stabilimenti settentrionali dell’Alfa Romeo. Le carenze di capitale sociale sono ravvisabili non solo nei comportamenti locali, ma anche in interferenze della classe politica nazionale.

La pista di collaudo dello stabilimento Alfasud
- Le carenze di capitale sociale non si erano manifestate per le precedenti esperienze di grande industria a Pomigliano, e sono state facilmente superate nello sciame di nuove iniziative dell’automotive insediatesi in altre zone, anche finitime, in quegli anni.

- Ad un indotto, modesto nel breve periodo, composto soprattutto di attività di servizio alla persona, si accompagna l’effetto imitativo concorrenziale quasi immediato di apertura di una grande area territoriale all’insediamento di industrie automobilistiche,  mostrando la possibilità e la convenienza di simili iniziative nel Mezzogiorno, fino a farne l’area prevalente dell’automotive nazionale.

- Un ulteriore indotto è generato nel breve periodo direttamente dall’impulso della direzione dell’Alfasud per la nascita di attività di servizio alla produzione nella componentistica (come anche il caso di gemmazione di capacità podruttive mostra per l’area murgiana-materana), come tutta la storia dell’automotive meridionale sembra suggerire con fenomeni di entità maggiore nel più lungo periodo.

- L’indotto meridionale si disperde, di nuovo, in molti casi in un’area più vasta della provincia di insediamento, rendendo tale dimensione amministrativa non particolarmente adeguata per indagini sugli effetti dei poli.

- Sono da segnalare interessanti effetti di riflusso e di apertura ai produttori nazionali nel settore alimentare e dell’industria tradizionale, dove si contrae l’occupazione locale.

- La decisione di insediamento produttivo a Pomigliano ha natura originariamente esclusivamente economica e finalizzata a redditività, secondo principi di mercato coniugati a finalità di perequazione territoriale.

- La successiva perdita della bussola della economicità della gestione induce nell’Alfasud e nelle Partecipazioni Statali patologie degenerative gravi che compromettono anche la sana funzione sociale dell’impresa compatibile con i detti
principi e aprono persino a infiltrazioni criminali.

- Le degenerazioni emerse non sono elementi esogeni. I problemi illustrati dalla letteratura sociologica sulla nascita dell’Alfasud vanno inscritti tra i problemi dell’insediamento di poli industriali in aree non sufficientemente dotate di strutture produttive, nelle quali gravi tensioni si accompagnano a carenza di capacità di gestirle,
in particolare per quanto riguarda la qualità dei ceti politici; descrivono effetti che
possono essere generati da un insediamento industriale esterno di grandi dimensioni in
un’area insufficientemente sviluppata.

- Nel lungo periodo, la privatizzazione dello stabilimento non ha portato a una sua dismissione; esso è stato mantenuto attivo, è stato parte consistente del sistema produttivo dell’azienda, prima della recente forte caduta della domanda di auto – che crea un quadro nuovo – è stato oggetto di importanti programmi di investimenti per ristrutturazione e la specializzazione nella produzione di alcuni segmenti.
si insiediò ai vertici dell'Alfa Romeo il 30 maggio 1978 annunciando che avrebbero portato in pareggio il bilancio in rosso nel giro di quattro anni,ma non fu così, anzi portarono l'Alfa Romeo nelle mani della Fiat alla fine del 1986.si insiediò ai vertici dell'Alfa Romeo il 30 maggio 1978 annunciando che avrebbero portato in pareggio il bilancio in rosso nel giro di quattro anni,ma non fu così, anzi portarono l'Alfa Romeo nelle mani della Fiat alla fine del 1986.

L'Ing Ettore Massacesi, Succeduto a Luraghi. Egli si insiediò ai vertici dell'Alfa Romeo il 30 maggio 1978 annunciando che avrebbero portato in pareggio il bilancio in rosso nel giro di quattro anni,ma non fu così, anzi portarono l'Alfa Romeo nelle mani della Fiat alla fine del 1986.

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