lunedì 17 febbraio 2014

A Natale non si fa peccato

A Natale non si fa peccato

21 dicembre 2013 alle ore 20.41

Di Nino Leone

Torna Natale e torno pure io, insistendo con la scrittura, su un tema a me caro: lo scorcio tra fine anni '50 e principio '60, e non solo per ragioni anagrafiche. Anni molto grigi, si badi bene, e poco lastricati dai colori smaglianti degli anni a venire. In quel frangente però, in Italia, accadeva qualcosa di speciale: il Paese - una sorta di casermone di provincia, in grande - sfidava la storia. La vita si faceva lavoro e si proponeva al mondo con la sua schietta capacità di sapersi terra accogliente, abitata da gente mite, ben disposta verso chiunque, emi/immigrati, godereccia e faticatrice, gente convinta di valere e con voglia di dimostrare che più semplici eravamo, meglio sopravvivevamo al terribile spettro/disastro dell'ultima guerra. Non era di certo l'Eden ritrovato, ma neanche un paese cafone. Ingenuo forse, come Totò e Peppino,ma non arroganti, e la musica era pari solo a quella, bella, ispano-ameicana, a quella, bellissima, americana/statunitense, a quella, sublime, brasileira, con Tom Jobim tutto da venire e chançonnierres come Ugo Calise, un "posteggiatore" autodidatta, che privatamente volava con l'aereo reale alla corte d'Inghilterra per suonare 7/8 canzoni sentimentali o d'amore, come si diceva, tra cui, "Nun è peccato", musicata dal superbo genio musicale di C.A. Rossi, milanese doc, compositore di alcune tra le più belle canzoni napoletane del dopoguerra. Vaglielo a dire a quelli dall'altra parte della frontiera a colori. Mi piace tornare con la scrittura a quegli anni in cui tutto era benedettamente più semplice, - lo posso dire ora che ne siamo tutti lontani - perché in verità eravamo educati a stare bene con poco, come probabilmente si dovrà fare da questi anni in poi. La letteratura è sempre un pretesto per il possibilmente vero, mai la verità vera. E perciò si presta alla narrazione. Esattamente come i personaggi di questo racconto.
Buon Natale da parte mia, perciò, a quanti sfideranno l'avventura di leggermi.

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La prima volta che ti vidi, era come ora, quasi Natale e quell'anno, già speciale per molti lati, fu perfino eccentrico. A Roma c'era con viva emozione un nuovo vecchissimo papa, GiovanniXXIII, che avrebbe cambiato un bel pò la storia della Chiesa e delle relazioni mondiali, mentre a fare allegri e scintillanti i giorni di festa, dietro finestre e balconi delle nostre case, si erano improvvisamente accese, tra varie altre curiose novità, le prime luminarie intermittenti, indice ormai diun nuovo stabile benessere.

Anche il mio era un anno bizzarro: mi ero infatti appena lasciato con la ragazza del piano sotto al mio - amoreggiavamo sin dalla quinta elementare - e non l'avevo presa troppo bene. Ti ricorderai che all’epoca ci si conosceva un po’ tutti e, chi non emigrava in Germania, America o Australia, là dove nasceva, ci moriva anche. La vita era molto simile a un bel paio di scarpe fatte a mano e buttate via solo se consumate risuolate e riconsumate. Di Mister Volare, ce n’era uno solo e si chiamava Domenico Modugno, che, America, andata e ritorno, col cuore al posto della faccia e braccia spalancate, cantava e volava nel blu dipintodi blu, salendo e scendendo da certi aeroplanoni della TWA. Tutti gli altri si arrangiavano al massimo sulle ali di una bicicletta.[http://youtu.be/t4IjJav7xbg]

Sebbene con la giovanissima lazzarella ce ne fossimo fatte di promesse, il giorno dell’Immacolata, lei non se la sentì più di continuare, confessandomi, a messa finita, di scriversi con uno di Roma, militare col fratello alla Cecchignola. 

– Ah sì, quello conosciuto durante l’estate... – avevo finto io, stavolta. 

Complice il fresco dei platani e qualche gelato sorbito nei limoni fatti in due, la calura estiva aveva scatenato il classico colpo di fulmine; sicché, tra San Domenico e l’Assunta, si erano sgretolate le asserragliate province in cui l’Italia era frantumata per lingue usi costumi e vini, soprattuto vini. Come sempre, lo straniero venuto di là della frontiera aveva fatto breccia, toccando stavolta me e la mia probabile donna della vita, la quale, senza troppi problemi, mi riciclò subito a suo intimo confidente. La crudeltà delle donne, certe volte…

Eppure, grazie a lei e alle assidue cartoline dal nuovo spasimante, conoscevo quasi tutto di Roma e, posti come San Pietro, i Fori Imperiali o il Colosseo, mi erano diventati di fatto familiari. Anzi, a rimarcare il suo essere della città eterna, il capitolino le aveva anche mandato un modellino di stagno lucido del famoso monumento, da lei orgogliosamente esposto sulla nuovissima consolle di stile svedese, come si diceva allora, arrivata nell’ingresso di casa, quell’anno, insieme al primo frigorifero della palazzina.

Tu invece avevi diciassette anni e non eri per nulla straniera: i capelli lunghi, lisci e un po’ dorati, diafana e splendente, eri perfetta come una pallina di vetro soffiato pronta per l’albero di Natale che tutti insieme si addobbava da Tonino, il mio più stretto compagno di liceo, lì, nella sala da pranzo di famiglia, trasformata in balera a ogni festa. E non ti stava male nemmeno quel vestitino nero, stretto in vita e più lungo che largo, che inaspettatamente indossavi. Allora vestire di nero non era  casuale, ma una sorta di notifica, diremmo oggi, che rendeva gli altri partecipi di eventi quasi sempre spiacevoli. Seppi solo in seguito della recente scomparsa di tuo padre. Rimasi subito colpito da te, ma non potevo darlo a vedere. Troppi ragazzi ronzavano, come api sul miele, freneticamente urtandosi e urlandosi gli uni con gli altri:

– No no… Troppo bassi, i lampioncini. Ciro, ci batte la testa… vuoi farli scassare subito? Tesa ancora un po’… le bandierine fanno la pancia in mezzo… Non vedi? –

Io dico che era per la tua presenza. Eri nuova del gruppo e si gareggiava a mettersi in mostra. Invece fosti tu a far scalpore. Vedendoti rintagliare bandierine e festoni dalla carta velina, eravamo tutti rimasti sorpresi dalla precisione e incantati dalla velocità con cui perforavi, sfrangiavi quegli impalpabili fogli, ricavandone figure e disegni goemetrici inusuali. A finale, dalle tue mani sembrava si librassero decine di leggerissime libellule colorate per andare a posarsi tra lampioncini di carta e fili, incrociati a bella posta. Eri proprio brava. Sì, brava e seducente, tanto da impedirmi di staccarti gli occhi di dosso e rendere all'improvviso l’innamoratella del piano di sotto, una coinquilina qualunque. Fui subito vinto dal tuo fascino, ma per mia incapacità a dichiararlo, me ne restai in disparte a immaginare o meglio a dar vita al sogno pieno di impudici pruriti di poter per un attimo accostare le mie labbra alle tue, mangiucchiandotele… ripassandotele… fino a spingermi oltre e farti mia. Completamente

Quando te ne andasti e mi allungasti la mano, un flusso mi corse per il braccio. Tu non lo puoi ricordare, ma sentire le tue dita tra le mie, mi procurò un tremoto molto simile a un attacco di febbre. Ti confesso che ebbi netta la percezione che anche per te fu lo stesso. La notte, a furia di pensarti sognarti e tastarmi il braccio, mi scivolò via quasi insonne. L’indomani, tempo di vestirmi e scendere in strada, sapevo già tutto di te, dove abitavi, dove andavi a scuola o a messa: alla nostra parrocchia, difatti, non ti si era mai vista.

Venne Natale, con la saga di nonni, fratelli, fidanzate, cognati, zii, cugini e la sagra di paste reali, roccocò e struffoli. Io, però, non distinguevo più niente e nessuno, ero in preda a una specie di frenesia, un vero e proprio stato stuporoso: ti vedevo dappertutto, ti bramavo, ti volevo: tutto mi rimandava a te. I tortanelli mandorlati e quei dolcini farciti di miele e confettini millecolori mi ricordavano la tua capigliatura curata; il loro colore indorato, quello della tua pelle; le sfumature delle nocciuole sparigliavano il riflesso dei tuoi occhi. Così come mi rimpinzavo di leccornie natalizie, avrei in ogni momento voluto dar sfogo al mio peccare di corpo o di gola, pur di assaporarti o saziarmi di te e della tua dolcezza.

La sera di Santo Stefano si ballò– ti ricordi? – e tu eri irrimediabilmente affascinante e accerchiata, però ci tenesti a salutarmi. Io, galantemente, ricambiai. La mano tornò a tremarmi come la sera delle bandierine. Eri bella… forse anche troppo per assegnare a me la palma della tua avvenenza, visto che intuivo perfettamente che, sottecchi, ti compiacevi del tuo indubitabile successo. Dio sa quanto avrei voluto parlarti, invitarti, strapparti all’assedio dei cavalieri ronzanti, ma non ce la facevo proprio a reggere quell’insopportabile gara. Me ne restai perciò in disparte, facendo finta di chiacchierare, ma rovinando invece, e tutto da solo, l’enorme panettone che il papà di Tonino aveva sbustato per la festa… Tutto, ovviamente, senza smettere un solo istante di spiare se anche tu mi guardavi, magari solo di sbieco, e – cosa bella – sempre più spesso mi capitava di incrociare il tuo sguardo: era malizia o un invito? Forse niente di ciò, ma a me così mi doveva sembrare. Si ballò e ballò, tu non eri mai libera, neanche se te lo avesse dato il prete per penitenza. Io, per contro, restai quasi sempre, come un baccalà, sotto la porta a reggere l’imposta e intanto non smettevo di piluccare l’uvetta dal dolce, vanto di Milano, finché, all’improvviso e quasi con prepotenza, uscisti dalla mischia: venivi verso la stanza dove erano i cappotti e dovevi per forza passarmi accanto. Nascosi perciò in tutta fretta l’ultimo boccone di panettone e istintivamente mi ero anche già fatto di lato per lasciarti il passo, ma quando fosti alla porta, mi feci un miracolo da me stesso… Sul piatto, Peppino di Capri aveva appena cominciato a smaglicare “Nun è peccato” [http://youtu.be/r5o9wcKTpOA]

– Vuoi ballare? –  mi buttai.

–  Sì – rispondesti e, come un foulard di seta, mi allungasti flessuosamente la mano; poi, più leggera di una brezza levantina, ti avvitasti a me, scordandoti cappotto e truppa d’assedio, rimasta a bocca aperta a osservare la scena.

– Come ti chiami? – domandasti tu a me. Non so se davvero non lo ricordavi o facevi finta… Non me lo hai mai svelato. Io ero talmente emozionato che mi ci volle tempo per ricordarmi di me stesso. Ti risposi impappinandomi tra cognome e cognome. E comunque il nome non mi uscì.

– Mica siamo a scuola…– mi scongelasti con micidiale ironia. – Volevo solo sapere il tuo nome o come gli altri ti chiamano… 

– Enzo… – ingarrai stavolta.  – E tu ti chiami Emma… Io, il tuo nomelo so da tempo –

Strabbuzzasti gli occhi, come per dare a intendere un autentico stupore, ricordi? Dopo di che non ci furono altre frasi, né nomi né cognomi: ti raccogliesti tra le mie braccia e io ti tenni stretta, come se, da attori consumati, avessimo un tacito contratto sottoscritto già da tempo. Volava, Peppino di Capri, sul filo del mio immaginato peccato, gorgheggiando il suo più grande successo di anni in nulla peccaminosi; volavamo anche noi, mentre le bandierine dai tenui arancioni lilla verdi sventolavano senza vento tra i lampioncini cinesi perfettamente fermi e a posto; le pareti della stanza, poi, se non erano già alberi infiniti, parevano almeno cespugli dentro i quali impigliava la nostra emozione e l’improvvisa voglia di volersi cercarsi toccarsi, come accade a chi sa di stare lì lì per innamorarsi. Urlava, Peppino, sogni e tremori, febbri e passioni di improbabili peccati, e noi ci credevamo, anche se quello che ci stava accadendo non si addiceva proprio ad alcuna colpa.

Quando sax e chitarra scandirono inesorabilmente la fine del brano, ci vollero risate e schiamazzi per farci riatterrare lì, a casa di Tonino, consapevoli che non sarebbe stata quella, l’ultima intensa stretta di mano. Tu poi ballasti con altri; io, sempre un po’ arricciato, mi tenni ancora in disparte: e non per timore della ressa concorrente, stavolta, ma per cauto pudore: non volevo condividere il mio cheek–to–cheek con chiunque o portarmi addosso altro profumo, sia pur vago, che non fosse il tuo. E la festa andò avanti come altre volte, probabilmente per gli altri, non certo per me, finché Tonino, proprio lui, rimise sul piatto “Nun è peccato”…Succedeva anche questo, quell'anno eccentrico.

Tu di lontano mi guardasti e io, senza nemmeno accorgermi che con gli occhi mi avevi già invitato, ti cercai e ti trovai. – Emma, –  ti chiesi perentorio come un Marc’Antonio – ti sembra peccato tutto questo? –  

– No – mi rispondesti e ti lanciasti inequivocabilmentee tra le mie braccia.

Riprendemmo a ballare mano nella mano, guancia a guancia, stretti stretti, come fosse ancora e di nuovo la prima volta. Quella musica che sarebbe poi diventata intramontabile, ogni volta più complice e ruffiana, ci faceva credere di conoscerci da anni.

Ora è di nuovo Natale e come allora, tra albero luminarie palline figli e nipoti, devo lo stesso contenderti, benché senza quella febbre che ci passò da parte a parte l’anno del pretenzioso  peccato a casa di Tonino. E se anche provassi a dirlo che, guardandoti, sento un certo pizzicorio al braccio e che il cuore mi si slarga sempre alla Mister Volare, non penso ci sarebbe qualcuno disposto a crederci. Poi, chissà…

Forse, meglio lasciare che ciascuno si goda le proprie epoche, emozioni e belle canzoni… Ammesso che ce ne siano.



Buon Natale.

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