da Dedicato a Pomigliano d'Arco (Note) Lunedì 4 giugno 2012 alle ore 19.20
Stabilimento Fiat di Pomigliano
Negli anni la Fiat avrebbe ottenuto dai governi qualcosa come 200 mila miliardi di lire di finanziamenti pubblici. Pomigliano industriale: una questione settentrionale
E' quanto viene affermato, seppure con difficoltà di accertamento, nell'articolo che segue. Questo fiume di danari, lira più lira meno, è stato destinato ad una industria privata dai governi che si sono succeduti fino a oltre la metà degli anni 2000. La pagina "Dedicato a Pomigliano d'Arco" propone questo articolo, abbastanza recente, di Salvatore Tropea ("La Repubblica") al fine di fare giustizia del luogo comune che vuole che i manager di Stato italiani siano stati degli "sperperatori" di finanziamenti pubblici" . In verità i governi si sono fatti sedurre dalla capacità (e voracità) di una famiglia sin dagli inizi del fascismo quando gli Agnelli si rivolsero a Mussolini per ricevere aiuti per le loro attività. Alcuni di questi apprezzati managers pubblici sono passati anche per Pomigliano. Citiamo Ugo Gobbato (Alfa Romeo), Carassai (Aerfer), Cerreti (Aerfer/Aeritalia), Bonifacio (Aeritalia), Luraghi (Alfa Romeo), Hruska (Alfasud). Il problemi che si sono verificati non sono sostanzialmente da attribuire a managers pubblici carenti. Si è trattato di carenza nelle capacità della politica e dei governi che non hanno saputo essere imprenditori . L'imprenditoria di Stato è stata battuta ampiamentie dalla famiglia Agnelli che ha saputo fare piazza pulita di qualsiasi concorrenza in Italia. (L.I.)
Lo stabilimento Fiat Mirafiori a Torino
Segue articolo
Dall' Alfa alla rottamazione così la lobby degli Agnelli ha dominato la politica
18 marzo 2012 — pagina 9 sezione: ECONOMIA “La Repubblica “ di Salvatore Tropea
TORINO - Quando nei tumulti del "biennio rosso" 1919-1920 gli operai occuparono le fabbriche e il fondatore della Fiat Giovanni Agnelli, che una sentenza compiacente e la Prima guerra mondiale avevano rimesso in sella dopo lo scandalo bancario del 1908, chiese a Giovanni Giolitti un deciso intervento del governo, l' anziano leader piemontese, rispose con una battuta: «Benissimo, vuol dire che darò ordini all' artiglieria di bombardare la Fiat». A mettere ordine ci pensò poi il fascismo con il quale il senatore Agnelli ebbe alterni rapporti, pur riuscendo a farsi ascoltare nei momenti decisivi. Nel ventennio della sua presidenza dal 1946 al 1966, Vittorio Valletta non fu da meno. Il "professore" si vantava di non aver frequentato le stanze romane del potere. Ma le poche volte che ci andò fu per ottenere dai governi democristiani il disco verde per le scelte della Fiat. Roma, per esempio, non ostacolò mai l' emigrazione massiccia dal Sud Italia e dal Veneto con quel che essa costò a Torino tra gli anni Cinquanta e i Settanta. E non fu tutto. Lo strapotere della Fiat sui governi di quegli anni è parte della storia industriale dell' Italia: lo esercitò Valletta e, con metodi diversi, l' Avvocato. Negli anni in cui si fece strada il pericolo dell' invasione di auto straniere, soprattutto giapponesi, Torino ostacolò a lungo questo processo, riuscendo a conservare quote di mercato del 60-70 per cento. Quando fu costretta ad abbassare la guardia Cesare Romiti, indicando il modello del Far East, disse: «Dobbiamo fare come i giapponesi».
Lo stabilimento Fiat di Melfi
Nel
1969, presidente da tre anni Gianni Agnelli, la Fiat "comprò" per cento
lire simboliche la Lancia senza che il governo di centro sinistra
muovesse un dito per salvaguardare l' autonomia della celebre casa
torinese. Sedici anni dopo ci fu l' annessione dell' Alfa Romeo. Alla
vigilia della conclusione del negoziato con l' Iri di Romano Prodi, a
una domanda sull' interesse della Fiat al Biscione, l' Avvocato rispose:
«L' unica rossa che conosciamo e che ci interessa è la Ferrari». Due
giorni dopo la Fiat ebbe la meglio sulla Ford diventando padrona dell'
Alfa a un prezzo che non fu mai completamente saldato. Al Sud la Fiat ci
andò, quando dopo l' autunno caldo a Torino e dintorni la situazione
era diventata delicata. Nel 1970 approdòa Termini Imerese. Il luogo non
era il più adatto per un impianto, ma i contributi del governo e della
Regione siciliana furono tali da mettere in ombra questa inadeguatezza
che sarà pagata poi a caro prezzo. Nei primi anni Novanta, lo sbarco a
Melfi venne salutato come una scelta meridionalista. In realtà anche in
questo caso il conto venne saldato con finanziamenti pubblici. «Abbiamo
aspettato molti anni per andare in Meridione ma siamo contenti di averlo
fatto», commentò Agnelli. Con la Confindustria, che pilotò a lungo con
la presidenza dell' Avvocato e poi con "missi dominici" di sua
emanazione, la Fiat romitiana ebbe mano libera su contratti di lavoro e
soprattutto sulla politica economica di governi che furono tenuti all'
oscuro di scelte quali l' ingresso nel capitale della società di un
alleato come Gheddafi. Il resto il Lingotto lo fece con il "salotto
buono" di Mediobanca anche se alla fine neppure questo salvò il gruppo
dalla crisi di fine secolo. C' è chi sostiene che negli anni il
gruppo torinese abbia ottenuto dai governi qualcosa come 200 mila
miliardi di lire: un conto difficile da accertare. E' sicuro
che il contratto di programma del 1988 riversò nelle sue casse oltre 6
mila miliardi di lire sotto forma di contributi in conto capitale e in
conto interessi, mentre nell' ultimo decennio del secolo scorso
arrivarono a Torino altri 2 mila 500 miliardi di lire sotto forma di
esenzione di imposte, cassa integrazione, prepensionamenti e mobilità.
Lo stabilimento Fiat di Cassino
Negli
anni Novanta venne inaugurata anche la politica della rottamazione. La
Fiat di Romiti aveva manovrato a lungo con la leva della svalutazione e
della cassa integrazione chei governi di un moribondo centro sinistra e
quelli che seguirono adottarono supinamente senza mai dare al Paese una
seria politica industriale. La novità della rottamazione fu a lungo una
ciambella di salvataggio. C' era ancora quando per salvare una Fiat
moribonda, nel 2004, arrivò al Lingotto Sergio Marchionne che per un bel
po' di tempo non disdegnò quell' aiutino pubblico elargito dai vari
governi, compresi quelli presieduti da Berlusconi che con Torino non
ebbe mai rapporti di amicizia e spesso lasciò fare disinteressandosi.
Anzi. Quando si cominciarono a sentire gli effetti della grande crisi fu
lui a dire perentoriamente: «O il governo rifinanzierà i sostegni al
rinnovo del parco auto circolante o in Italia chiuderanno alcune
fabbriche». Tutto questo appena quattro anni fa. Ma poi cambiò idea e
optò per il gran rifiuto: «Siamo contrari alla rottamazione che,
dopotutto, in Italia è utilizzata al 70 per cento dalle case straniere».
Lo ha ripetuto anche di recente, aggiungendo di non «aver mai chiesto
nulla al governo». SALVATORE TROPEA
Termini
Imerese. Lo stabilimento sorse nel 1970 grazie ad un consistente
contributo della Regione Siciliana. E' stato chiuso alla fine del 2011.
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