venerdì 21 giugno 2013

'NTUONO, il fornaio a Pummigliano

'NTUONO, il fornaio a Pummigliano

da Dedicato a Pomigliano d'Arco (Note) Venerdì 21 giugno 2013 alle ore 15.51



Vi proponiamo il racconto 'NTUONO" che fa parte di un pregevole libretto di Mario De Falco dal titolo “Acquarelli Pomiglianesi” – Ricordi di personaggi, usi e tradizioni di una Pomigliano che non c’è più.
 Il libretto è stato pubblicato nel 2003 dal Comune di Pomigliano d’Arco -Assessorato alla Città Educativa ed è nella disponibilità della Biblioteca del Comune di Pomigliano. Dedicato a Pomigliano d’Arco ritiene che questo racconto (che si riferisce ai fornai pomiglianesi nel periodo presumibile di metà degli anni '30) possa dare al lettore, giovane e meno giovane, uno spaccato della vita di Pomigliano a quei tempi. Le foto utilizzate per l'impaginazione sono tratta dagli albums di "Dedicato a Pomigliano d'Arco" e da internet.


'NTUONO (di Mario De Falco)

Così veniva appellato uno dei tre fornai della Pomigliano della mia infanzia, ed era, in un certosenso, il più famoso.
Può sembrare strano che una cittadinadi 12.000 abitanti avesse solo tre fornai, il motivo era che la massima parte della popolazione era composta da agricoltori coltivatori
diretti e quindi produttori di grano i quali poi provvedevano a macinarlo e quindi il loro pane se lo producevano da soli. Infatti a confronto dei solo tre fornai i
mulini erano molto di più.


Ed anche la costituzione urbanistica dei fabbricati che costituivano la massima parte del tessuto urbano
rispecchiava la necessità di venire incontro a questa consuetudine.
Infatti, poiché un forno a legna era in un certo modo costoso a realizzarsi, nei cortili comuni, sui quali affacciavano le unità abitative dei singoli proprietari,troneggiavano
i cosiddetti “comodi comuni” e cioè pozzo, forno e lavatoio cui si affiancava spesso il cesso con
sottostante pozzo nero stagno.


La larga parcellizzazione della proprietà contadina faceva sì che
erano davvero poche le persone che non erano in condizione di farsi
personalmente il pane e che dovevano perciò ricorrere al fornaio. Stranamente queste persone erano di due categorie sociali molto distanti tra loro: i liberi professionisti
e i pubblici impiegati, gli umili artigiani e i braccianti agricoli.
Ancora più stranamente anche i tre fornai si diversificavano con la loro produzione e con l’ubicazione dei loro negozi.


‘Ntuono, cioè Antonio Montano, conforno “‘mmiez’‘a chiazza, (oggi via Roma) quasi all’altezza dell’attuale Farmacia Romano, produceva pane bianco e fu il primo a produrre fragranti rosette al lievito di birra, divenne un poco il panettiere dei “signori” e raggiunse anche un certo benessere economico che ovviamente provocò anche qualche malcelata invidia tant’è che nacque un motto:
“Ca’ si more ‘Ntuono nun si fa chiù ‘o pane!”.
 Ma la tradizione invece fu continuata dai figli ed oggi dai nipoti.


Rabbiele, cioè Gabriele Cozzolino, il forno lo teneva “‘ncoppo ‘o Carmine”. Era specializzato per le sue pagnotte di “pan’ ‘e grano” (cioè quello che oggi definiamo pane integrale) nelle due versioni“niro” ed “asciurato” e la sua clientela era costituita dal ceto più povero ma che
era anche il più numeroso. I suoi figli presero altre strade ed oggi alcuni suoi nipoti sono stimati professionisti.


Il terzo era un tipo molto caratteristico anche fisicamente,
si chiamava Eugenio Cetro ma era soprannominato “Bbiloscia” con forno in via Carmine Guadagni.
La sua produzione di pane integrale era molto limitata, ma le sue due grandi specialità erano: per prima le
“freselle”, ciambelle di pane semicotto in forno, poi tagliate
in due parti nel senso orizzontale erimesse in forno a biscottare fino al completo raffreddamento del forno
stesso.

Le suddette freselle erano delizie da gustare  sia sotto una  zuppa di fagioli, sia, leggermente sfregate con uno spicchio di aglio e inumidite, a formare, nelle calde sere estive, la base della “caponata” cioè coperte da pomodori tagliati a metà,  alici salate sott’olio, zucchine alla “scapece”, e spesso anche da melenzane a “fungetielle” e il tutto irrorato da un filo d’olio costituivano un piatto unico fresco e fragrante per la cena.

La seconda specialità  di Cetro erano le classiche pizze napoletane che, in assenza totale sul territorio delle pizzerie, si era organizzato a produrre di sera e andava in giro a venderle, ben sistemate nella “stufa” (recipiente di banda stagnata conte--nente più ripiani e coperto da un coperchio sovrastato da uno sfiatatoio a camino) e “dava lavoce”, scherzando sul suo soprannome, “Bbiloisc! mò maggio furnuto ‘e
m’appiccicà cu’ Caflìsc” (storico pasticciere napoletano) e così riforniva di bollenti“margherite” e “marinare” le mense pomiglianesi di una squisita cena invernale.

Poi, fattosi più avanzato in età, e forse anche per l’incremento della produzione, aveva assunto, per la vendita a domicilio, un suo nipote, Alberto. Per le serate molto fredde, aveva inventato una versione della pizza con “pomodoro, aglio, olio e spadella” (peperoncino piccante cui si attribuisce anche effetti afrodisiaci) per cui Alberto nel dare “la voce”, con cui segnalava il suo passaggio per le strade semibuie, diceva: “Muzzeca pontaponta... e vire
ca’ t’afferra!”.

Il figlio Vincenzo, prematuramentescomparso per un incidente stradale, e poi i nipoti, in un panificio moderno, continuano la tradizione delle“freselle” per la delizia del palato degli intenditori Pomiglianesi e producono panini all’ingrosso per il rifornimento quotidiano del fragrante alimento alle salumerie della zona.


Nessun commento:

Posta un commento

Grazie per aver visitato questo blog.
Suggeriscilo ai tuoi amici.